Paniscia, il risotto tipico del Lago d’Orta
La Paniscia, un risotto di carattere
Carico di sapori semplici, dall’etimologia incerta ma dal chiaro retaggio contadino, la paniscia è un piatto del territorio che vanta diverse varianti.
La paniscia novarese, oppure la paniccia del Lago d’Orta oppure ancora la panissa ligure o quella vercellese.
Questo piatto, connaturato all’inclusione che genera a partire dalla propria ricetta, non lesina varianti e ramificazioni, con versioni che differiscono anche solo di un ingrediente o due nel giro di pochi chilometri, differenze piccole, ma che generano tutto il contrasto concettuale del mondo, come si conviene ai piatti della tradizione locale, carichi di sapore ma anche di un po’ di sano campanilismo.
Partiamo dall’incontrovertibile: la paniscia è un piatto a base di riso, solitamente un superfino, con chicchi grandi, come il Razza 77 o in alternativa l’Arborio.
Paniscia, la storia del piatto
La paniscia nasce per festeggiare. È un piatto “esagerato”, barocco nelle intenzioni, quando le possibilità erano poche e per fare festa si cercava di mettere un po’ tutto insieme, senza lesinare o cercare abbinamenti sofisticati.
Le origini della paniscia ci riportano molto indietro nel tempo. Addirittura quando nella pianura novarese il riso non c’era ancora – dunque prima del XV secolo – e si coltivavano cereali come panico, segale, orzo, avena e miglio. Sulle origini del nome esistono alcune ipotesi. Deriverebbe per esempio dal cereale pilato; oppure dal termine latino “paniculum”, “migliaccio”, fatto con il miglio.
Paniscia, la ricetta di Novara
Gli ingredienti della paniscia novarese sono: riso della varietà Arborio, Carnaroli o Roma, fagioli borlotti, cavolo verza, carota, sedano, cipolla, vino rosso delle Colline Novaresi, lardo, cotica di maiale, salam d’la duja, sale e pepe. In ogni casa la ricetta viene personalizzata e la lista degli ingredienti è passibile di variazioni. Non possono però mancare i fagioli, la cipolla, il vino e il salame.
Con i fagioli borlotti, le verdure e le cotiche di maiale si prepara un ricco brodo, dopo una lunghissima cottura.
Si soffrigge una cipolla nel lardo e si inseriscono altri due ingredienti tipici del territorio: il salam d’la duja (o doja), ossia il morbido salame maturato in un boccale di strutto; e, spesso ma non in tutte le ricette, la mortadella di fegato, tipica della Valsesia e della zona del Lago d’Orta.
A questo punto viene inserito il riso, con un bicchiere di barbera e quindi l’aggiunta del brodo, mantecando a piacere in chiusura di preparazione.
Toma del Mottarone: tra i Migliori Formaggi d’Alpeggio
Toma del Mottarone, la perla d’alpeggio del Piemonte
Il Toma del Mottarone è un formaggio realizzato con latte vaccino proveniente dal territorio del Mottarone, e considerato uno dei migliori formaggi d’alpeggio del Piemonte.
Il territorio del Mottarone è il luogo di nascita di un delizioso formaggio tipico, la toma del Mottarone.
Le sue caratteristiche organolettiche e visive lo rendono un prodotto caseario di rilievo, tanto che in Piemonte è considerato uno dei migliori formaggi d’alpeggio.
Toma del Mottarone, quali sono le caratteristiche?
Si caratterizza per essere un prodotto caseario realizzato con latte crudo intero vaccino, che proviene dalla zona piemontese omonima, ovvero quella del Mottarone.
La pasta di questo formaggio è morbida occhiata: la durata della stagionatura in alpeggio è infatti pari a un periodo di tempo compreso fra i 2 e i 3 mesi.
Una delle sue principali caratteristiche è il colore giallo paglierino, dovuto al latte del territorio che è particolarmente ricco di betacarotene, ovvero di vitamina A.
Una forma di Toma del Mottarone ha un peso di circa 4 chili. In base a dove viene prodotta e alla tecnica usata per la preparazione, la Toma del Mottarone avrà un sapore più o meno deciso e intenso, anche se il gusto rimane in generale molto equilibrato.
Come si produce?
Viene prodotta secondo un metodo tradizionale: la creazione di questo formaggio piemontese risale almeno al periodo medievale, ed è fortemente legata all’area alpina, in particolare a quegli alpeggi raggiunti in estate.
Il formaggio, come anticipato prima, viene realizzato con il latte della zona. Quest’ultimo non subisce processi di pastorizzazione e viene cagliato a una temperatura di 36°C. Dopo aver riposato, la cagliata viene portata a una temperatura di 42°C, messa in stampi specifici e posta in salamoia per un giorno intero. È possibile trovarla e acquistarla all’interno delle Cooperative, oppure nei mercati del sabato di Armeno o del martedì mattina a Gignese. Questo formaggio è poi ideale per essere abbinato con la Cognà, le gelatine di Moscato e Dolcetto e il miele al tartufo.
Il Tapulone, la ricetta di Borgomanero
Il Tapulone di Borgomanero
Il tapulone è un antichissimo piatto della tradizione dell’alto piemontese. Viene servito finemente sminuzzato e con abbondante vino rosso locale.
Il nome è insieme curioso e vagamente evocativo, suona come un animale mitologico, o quasi. Ma il tapulone (o tapulòn) è un nome che non ha nulla di ferale. Anzi, deriva da una variante locale del verbo piemontese ciapulè che significa “tritare, affettare finemente, tagliuzzare”.
È un antichissimo piatto della tradizione dell’alto piemontese, una ricetta di carne (la versione ortodossa vuole una carne particolare: quella d’asino) in versione spezzatino: battuta finemente sminuzzata e servita con alloro, rosmarino, chiodi di garofano, sale e il vino rosso delle colline locali.
Tapulone, la storia del piatto
La cucina popolare è un coacervo sempre interessante di storie e narrazioni. Il tapulone non fa differenza. La leggenda vuole che tredici pellegrini affamati, di ritorno da una visita al santuario di San Giulio d’Orta, si fermarono, esausti, in cerca di provviste alimentari dopo avere terminate le loro.
Non trovando nulla di commestibile si videro costretti a cucinare un asinello del loro seguito e, per attenuare la durezza delle carni, presero a sminuzzarle finemente e a cuocerle a lungo nel vino.
Il pasto piacque così tanto che i pellegrini decisero di fermarsi e mettere radici proprio dove lo consumarono per la prima volta. E così fondarono un villaggio, l’attuale Borgomanero.
Se del maiale non si butta via niente, come vuole l’adagio, si potrebbe dire che dell’asino non si butta via neppure un servizio. L’animale veniva utilizzato come mezzo di trasporto e, quando troppo anziano per sopportare carichi pesanti, come fonte di cibo diretta.
Come tutte le ricette popolari, anche il tapulone insegna a lavorare con la residualità e con risorse semplici ma efficaci.
Tapulone, la ricetta classica
La ricetta del tapulone di Borgomanero è semplice: Il piatto continua ad essere preparato mettendo la carne macinata su un soffritto d’olio e burro profumato con rosmarino, lauro e aglio.
È dunque prevista una cottura a fuoco lento con un battuto di lardo, verza ed erbe aromatiche. Per mantenere la carne morbida e umida si utilizza abbondante e corposo vino rosso locale.
Tempi di cottura? Se una volta la preparazione del piatto poteva durare almeno un paio d’ore, oggi si prepara in circa 30 minuti.
Ovviamente, oggigiorno è impossibile riproporre il tapulone dei fondatori in quanto la carne dei vecchi asini abituati alla fatica dei campi è sostituita da quelle di animali di allevamento e anche sul fronte vino le cose sono cambiate inesorabilmente: il vino di una volta, ricco di tannino e con un grado di acidità più elevato di quello a cui siamo abituati, non è più in commercio.
Oggi, in alcune varianti del piatto, al posto della carne d’asino viene utilizzata carne di vitellone o di cavallo e talvolta vengono aggiunti funghi, verza o sedano.
Ma il tapulone è sempre buono, gustoso e caratteristico.
Mortadella di fegato, peculiarità del prodotto
Mortadella di fegato, storia e caratteristiche
La mortadella di fegato è un insaccato caratteristico delle zone di Pavia, Mantova e Como, con una significativa storia alle spalle e un metodo di produzione molto tradizionale.
È un prodotto tipico della Val d’Ossola e delle province di Pavia, Mantova e Como. Questo insaccato, preparato con carni miste di suino, può essere consumato sia crudo che bollito, secondo ricette e varianti differenti. La mortadella della Val d’Ossola è poi un prodotto che rientra sotto il presidio Slow Food. Ma quali sono i metodi di realizzazione di questo insaccato? E quale la sua storia?
La storia della mortadella di fegato
Conosciuta anche come mortadella della Val d’Ossola o ossolana, è presente da almeno il XVII secolo nel territorio italiano, come dimostrano alcuni documenti dell’epoca. Contestualmente però, ci sono testimonianze dell’esistenza della mortadella stagionata anche in Ticino, come dimostra un atto che decreta la tassa su alcuni oggetti di salsamenteria, fra cui rientrava appunto la “Mortadella buona e ben stagionata”.
La mortadella della Val d’Ossola veniva all’epoca consumata non solo stagionata, ma anche fresca. In un’inserzione del XIX secolo poi, si trova un metodo per i salumieri per cuocere le mortadelle, che prevedeva la cottura delle stesse in acqua.
Ma la mortadella di fegato non veniva preparata soltanto dai salumieri, ma anche dai privati nel giorno della mattanza del maiale.
La mortadella di fegato o della Val d’Ossola non deve trarre in inganno per il suo nome: pur essendo un insaccato, questo prodotto non è una vera e propria mortadella, bensì un salame.
Questo dipende dal fatto che il termine mortadella deriva dal mortaio, a indicare la carne pestata e sminuzzata con tale strumento. La norcineria tradizionale non ha voluto abbandonare questa consuetudine, e spesso quindi i prodotti hanno mantenuto questa nomenclatura anziché la più popolare dicitura di “salame”.
Il territorio della Val d’Ossola, area di confine fra Piemonte, Lombardia e Svizzera, possedeva e possiede tutt’ora un’antica tradizione norcina, di cui erano celebri soprattutto i maiali, allevati allo stato brado che venivano portati nelle malghe con un anello al naso.
Come si produce e come consumarla?
Viene prodotta in quantità minime da pochi artigiani. È costituita da carni crude di suine, a cui viene aggiunto al massimo il 5% di fegato e, in alcuni casi, del vino tiepido insaporito con spezie.
Il tutto viene insaccato dentro al budello del maiale, e fatto stagionare per circa due mesi.
Il prodotto così realizzato assume un gusto deciso, ideale per essere mangiato a fette accompagnato dal pane nero locale di Coimo. Quando è fresca può essere lessata e servita con patata, oppure cotta nel forno e accompagnata da polenta asciutta.
Se si decide di recarsi nella zona di produzione, potrà essere consumata insieme al Prunent, un vino rosso ricavato dall’omonimo e raro vitigno locale.
La grappa novarese
La grappa novarese, prezioso nettare frutto di pregiate viti cui la zona ne è ricca.
Presso il Relais & Chateaux Villa Crespi, infatti, organizziamo visite private presso Casa Francoli. Qui verranno illustrate e spiegate le realtà della distilleria produttrice di pregiate grappe e dell’azienda Vinicola Torraccia del Piantavigna.
Una tradizione nata più di 100 anni fa. La passione per la terra, la contemplazione delle vite con il passaggio in alambicco si trasformò nella grappa.
Un luogo dove il prodotto finale è solo un piccolo passaggio di quella che la contemplazione di chi vi lavora per rendere questa grappa sinonimo di eccellenza ed artigianalità italiana.
CASAFRANCOLI è lo showroom delle Distillerie Luigi Francoli e dell’Azienda vitivinicola Torraccia del Piantavigna. Immerso nel verde, a pochi passi dal Monte Rosa e dal Lago d’Orta e Maggiore, casa francoli è da più di 20 anni punto di riferimento per la degustazione e l’acquisto di grappe, distillati, liquori e vini di qualità;
DA NON PERDERETE / CONSIGLIATO
Al suo interno vi attende un ambiente piacevole e moderno, dove poter degustare in tranquillità un buon calice di grappa o vino. Di fondamentale importanza è sempre stato il rispetto e la salvaguardia dell’ambiente. Distillerie Francoli è infatti la prima distilleria di Grappa a Impatto Zero®.